Una batteria a flusso all’Università di Padova

Non si può immaginare un futuro sostenibile senza energy storage. La lotta al cambiamento climatico e la riduzione delle emissioni inquinanti, obiettivi sottoscritti a Parigi da 195 nazioni, presuppongono una rapida transizione verso fonti di energia rinnovabile e sostenibile. Fonti come l’eolico e il fotovoltaico, che però, per loro stessa natura, sono intermittenti e difficilmente programmabili, poiché dipendenti dalla disponibilità locale di sole e vento, altamente variabile in funzione sia del tempo che dello spazio.

Fonte: P. Alotto, M. Guarnieri, F. Moro – Redox flow batteries for the storage of renewable energy: A review, 2013, Renewable and Sustainable Energy Reviews

La trasformazione del comparto energetico non può dunque limitarsi alla sola generazione rinnovabile, ma deve coinvolgere tutti i nodi della filiera, dal dispacciamento al mercato di vendita al dettaglio. Per poter far questo, l’accumulo energetico diventa fondamentale, tanto su grande quanto su piccola scala. Delle diverse tecnologie di accumulo disponibili oggi sul mercato, solo quelle basate sulla conversione elettrochimica sembrano adatte a fornire quei servizi necessari al corretto dispacciamento delle fonti rinnovabili: time shifting, peak shaving, massimizzazione dell’autoconsumo, controllo della power quality, etc.

Se, da un lato, per le applicazioni domestiche e automotive la chimica vincente sembra essere quella tradizionale degli ioni di Litio, dall’altro per l’accumulo in rete sono in fase di sperimentazione nuove tecnologie con caratteristiche molto diverse. Una di queste è costituita dalla famiglia delle batterie a flusso, una particolare forma di accumulo elettrochimico che rappresenta una sorta di ibrido tra una batteria convenzionale e una fuel cell. Le più studiate sono le cosiddette Redox Flow Batteries (RFB).

A differenza delle normali batterie ricaricabili (piombo-acido, litio-ioni, sodio zolfo, ecc.), nelle RFB le specie chimiche attive si trovano direttamente in soluzione nel liquido elettrolita (e.g. acido solforico): l’accumulo energetico vero e proprio è realizzato per mezzo di due serbatoi, contenenti, rispettivamente, l’anolita (in cui è dissolta la specie che ossida) e il catolita (in cui si trova la specie che si riduce). I due fluidi vengono pompati attraverso il c.d. stack (il reattore, cuore della cella), in cui avviene la reazione redox e le due soluzioni scambiano ioni attraverso una membrana semipermeabile.

Ad utilizzare questo meccanismo sono le batterie redox al Vanadio (VRB), attualmente oggetto di studio proprio all’Università di Padova, presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale. Questa tecnologia è particolarmente interessante per l’accumulo stazionario energy intensive e comincia già a trovare spazio in alcune installazioni commerciali, oltre che sperimentali.

I vantaggi intrinseci che questa tecnologia presenta sono innegabili. Per cominciare, impiega una sola specie chimica elettroattiva, il Vanadio. Il Vanadio è un metallo raro, ampiamente utilizzato nell’industria siderurgica per la produzione di acciai basso-legati inossidabili, ed è in grado di assumere quattro diversi stati di ossidazione quando il suo composto più comune, il pentossido di Vanadio (V2O5), è posto in soluzione nell’acido solforico (H2SO4). Ciò significa che il Vanadio è l’unico elemento attivo coinvolto nella reazione (reversibile) di ossido-riduzione, che avviene a temperatura ambiente e che è descritta dall’equazione:

V2+ + VO2+ + 2H+  ⇄  VO2+ + V3+ + H2O

VO2+ e VO2+ sono ioni che il Vanadio forma quando assume i numeri di ossidazione, rispettivamente, +5 e +4

Per questo motivo risultano assenti, o trascurabili, fenomeni di corrosione/elettrodeposizione sugli elettrodi o di contaminazione incrociata tra gli elettroliti. Gli ioni metallici non vengono consumati durante la reazione, ma cambiano semplicemente il loro stato di ossidazione, in un processo reversibile anche a fronte di scariche profonde. Inoltre, la batteria è in grado di mantenere la sua carica per lunghissimi periodi, poiché gli elettroliti vengono stoccati in serbatoi separati. Tutto questo, assieme al fatto che non vi sono gas tra i prodotti di reazione, migliora notevolmente le prestazioni del sistema rispetto alle soluzione concorrenti (comprese le fuel cells), in termini sia di sicurezza, sia di longevità (si parla di un numero di cicli carica-scarica di un ordine di grandezza superiore rispetto alle chimiche tradizionali). 
 

Confronto tra diverse tecnologie di accumulo elettrochimico. Fonte: Sizing of VRB in electrified heavy construction equipment – N. Zimmermann (2014)

Ma la caratteristica senza dubbio più interessante riguarda la possibilità di disaccoppiare il dimensionamento in potenza da quello in energia: se infatti la potenza erogabile è determinata grosso modo dal numero di celle nello stack, la capacità di storage dipende essenzialmente dal volume di elettrolita impiegato. È dunque virtualmente possibile aumentare a piacere la capacità di accumulo del sistema (fino a circa 100 MWh), semplicemente incrementando il numero di serbatoi connessi all’impianto di pompaggio. Questa particolarità conferisce alla batteria proprietà modulari e la rende estremamente competitiva per l’accumulo di lungo periodo, tradizionalmente affidato al pompaggio idroelettrico (PHES).
Nonostante tutte le potenzialità, la ricerca sulla VBR non può ancora fermarsi. I principali obiettivi sono:

  • migliorare le performance elettriche (potenza, tensione, corrente, energia, etc.)
  • ridurre le perdite e i costi
  • aumentare la densità energetica e il rendimento complessivo
  • realizzare architetture più semplici e compatte
  • efficientare il sistema di pompaggio e di circolazione dei fluidi
  • perfezionare i già sofisticati sistemi di controllo
  • minimizzare le non-idealità della reazione
  • ottimizzare la chimica e individuare nuovi materiali
  • sviluppare modelli matematici e metodi numerici per simulare al meglio i processi
  • mettere a punto l’interfaccia della batteria con la rete.

Molti di questi punti sono attualmente in fase di studio all’Università di Padova. Francesco Suman ha intervistato per Il Bo – Il giornale dell’Università di Padova il prof. Massimo Guarnieri, docente e ricercatore presso il Centro Studi Giorgio Levi Cases, il quale ha gentilmente illustrato in un video le caratteristiche ed il funzionamento della VBR sperimentale installata nel laboratorio del Dipartimento di Ingegneria Industriale. Per tutti i dettagli e la videointervista, visita il link riportato qui sotto.

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